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NIENTE BACI SULLA BOCCA
(J'EMBRASSE PAS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 aprile 1992
 
di André Téchiné, con Manuel Blanc, Philippe Noiret, Emmanuelle Béart (Francia, 1991)
 
Comincia come si deve questa storia di un provinciale che s'evade a Parigi, finisce per fare il gigolo ("Un tapin n'est pas forcement pédé", che vuol poi dire che un marchettaro non dev'essere necessariamente gay) prima d'innamorarsi di una collega, sfortunatamente provvista di magnaccia orrendamente vendicativo oltre che del tutto intransigente.

Comincia in una valle incassata dei Pirenei sporca di neve vecchia, di sole pallido e foglie secche che potrebbero essere benissimo quelle delle nostre Valcolla o Verzasca. Con André Téchiné che ci ricorda di essere uno dei più raffinati pennellatori del cinema francese: poche, preziosissime inquadrature, che bastano a dirci tutto del presente, passato, e prevedibile futuro di Pierre (l'esordiente sconosciuto di sogno nel genere bello-innocente-determinato, che si porterà sulle spalle tutto il film). Una prima inquadratura immobile attraverso la finestra del commestibili, della madre asciugata di lacrime, che tenta d'infilargli in tasca un povero biglietto da cento. Una seconda inquadratura del padre che sfila all'esterno, silenzioso come deve ricordarselo il ragazzo da sempre, mentre carica della merce sul furgoncino. Una terza della testimonianza del paese all'avvenimento - chiave per il protagonista, una vecchia che transita curva di spalle, due case anonime all'incrocio, il solito gatto sul solito resto di neve ghiacciata. E poche altre: il giovane che inforca il motorino, il commiato asciutto e commosso con il fratello che governa le pecore poco più in alto, il treno ed il controllore che lo sveglia alla stazione d'Austerlitz, la Mercedes nera e lucida che gli fa da tassì, per qualche istante prima che si accorga che il tassametro superi già i livelli di guardia.

Pierre è partito per davvero, E assieme a lui il film; ambedue con fortune alterne. Pierre è a Parigi, solo con il proprio corpo, dopo che quello che siamo soliti definire apprendistato si è liquefatto più velocemente della neve in valle: un lavoro come lavapiatti, due conoscenze (una etero; e una omo, con un Philippe Noiret una volta tanto sorprendente) da sopravvivenza assicurata, un'improvvisata carriera d'improbabile attore e, per sistemarlo del tutto, una passione per la prostituta-baby Emanuelle Béart: scollatura, spacchi e una frangia alla Louise Brooks, un linguaggio di circostanza ma un animo tutto da medicare.

La passione. Che da una vita accompagna Téchiné: perché - con la sua dismisura, con la sua trasgressione - gli serve a denunciare ogni sorta di aberrazione. Quella degli individui ("Volevo che, scoprendo il mondo moderno, quello della capitale, Pierre scoprisse la propria faccia nascosta, quella oscura che non si usa, o non si osa osservare") e più ancora quella della comunità degli individui ("Pierre s'iscrive in una sorta di fatalità sociale").

Per filmare la passione e le sue incongruenze ci vogliono (e sono proprio i film precedenti del regista ad insegnarcelo) i toni iperrealistici. Perché sono i soli a farci credere che è la verità ad essere falsa; mentre è invece vera, ed accettabile l'amplificazione, l'esagerazione della realtà. Il Téchiné di J'EMBRASSE PAS sceglie invece (o è tentato) dalla cronaca. Che non può che essere risaputa, e ormai non più trasgressiva: quella della Parigi gay con intellettuale omo consapevole da contrapporre alla "folle" scombiccherata, prostituzione ovviamente squallida al Bois de Boulogne e travestiti brasiliani che sembrano fare soltanto colore.

Una "diversità" che l'autore sembra dapprima voler far accettare allo spettatore. Per poi decidersi a condannarla: con finale tutto espiato, contrapposizione con fratello normale venuto dalle montagne pure, stupro violento e punitivo, ingaggio nei paracadutisti e finale alla Truffaut. Bagno in mare che, come sappiamo, lava più bianco e permette di ripartire da zero.


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